Intervista di Giorgio Napolitano al Corriere della Sera, 27 gennaio 2018
(di Antonio Polito)
«Gli scenari che leggo sul dopo voto sono spesso pure fantasticherie, formule senza fondamento costituzionale. Ho esperienza in materia, visto che mi è stato attribuito il merito o il demerito di aver fatto nascere un qualche “governo del presidente”, magari “tecnico”; e posso dire che una simile fattispecie non esiste. Il presidente non può inventarsi un governo perché dominus è il Parlamento; tutti i governi sono espressione della nostra democrazia parlamentare». Giorgio Napolitano, che pure ne ha viste tante dal 1948 ad oggi in diciotto campagne elettorali, appare preoccupato dai possibili esiti di questa. «Quando la politica non riesce a dare soluzione a una crisi, il compito del capo dello Stato si fa certo più difficile, ma sempre dentro il dettato e la prassi costituzionale. Egli è chiamato a svolgere quella “funzione di coagulo” di cui ha scritto Livio Paladin, facendo leva sulla sua autorità e saggezza. Ha un vincolo, e uno solo: dare l’incarico a chi mostri di poter ottenere la fiducia di una maggioranza. Poi decide il Parlamento, e quel che nasce è sempre un governo politico».
Se non si riesce a formare un governo, è possibile tornare subito alle urne?
«È un’ipotesi estrema che non ha senso ora prospettare. Tanto meno per esercitare una pressione indebita sul capo dello Stato. Sergio Mattarella agisce con il suo stile fatto di riserbo, prudenza e misura. Ogni tentativo di forzargli la mano sarebbe indebito e scorretto. Egli farà ogni sforzo perché nasca una soluzione, impiegando il potere di persuasione che è proprio del presidente».
Ma se decide il Parlamento, allora la corsa a chi arriva primo, in assoluto o in una coalizione, tra i candidati premier è solo una finzione?
«Peggio, è una totale mistificazione. Da quando in una legge elettorale è comparsa l’indicazione del capo del partito o della coalizione si è lasciato credere che il presidente del Consiglio sia eletto dal popolo invece che dal Parlamento, e tale ambiguità viene alimentata nell’opinione pubblica anche in questa campagna. Per di più non risulta in questo momento neanche un accordo interno alle rispettive coalizioni sul nome che intenderebbero, una volta insediato il nuovo Parlamento, indicare al capo dello Stato. Né vale a questo proposito che un partito proponga una rosa di nomi anziché uno solo».
Dopo il voto bisognerà cambiare di nuovo la legge elettorale?
«Penso che anche chi ha votato questa legge, con le gravi forzature che ricordiamo, sapesse che si trattava di una soluzione che non avrebbe retto a lungo. Ritengo che sia perciò nell’ordine delle previsioni oggettive tornarci su nella prossima legislatura. Anche se ciò aggraverà ulteriormente l’anomalia italiana, un Paese che nella sua storia repubblicana ha conosciuto più scioglimenti anticipati delle Camere, più leggi elettorali, più governi e più ministri di ogni nostro partner europeo».
Fin quando potrà durare il governo in carica?
«Il governo Gentiloni potrà continuare a operare fino a quando un altro governo si presenterà alle Camere e ne otterrà la fiducia».
Che cosa pensa della campagna elettorale appena cominciata?
«Si è nel complesso diffusa un’enorme cortina fumogena. I programmi che i partiti hanno delineato sono in larga misura indeterminati e inattendibili, e comunque non sono veri e propri programmi elettorali che per definizione dovrebbero avere un respiro di medio termine, cioè l’arco di una legislatura. Voi del Corriere li avete giustamente definiti, nell’insieme, “promesse senza futuro”, non facendo i conti con gli interessi reali dei contribuenti: ci si impegna contemporaneamente a tagli di tasse e ad aumenti di spesa, con quantificazioni risibili dei costi, senza chiarire le risorse di bilancio cui si intenderebbe attingere. E non vedo nessuna presa di distanza da questa corsa demagogica che coinvolge un po’ tutti».
La maggiore proposta di politica economica in circolazione è la flat tax. Che cosa ne pensa?
«Il tema di una drastica riduzione delle tasse è tornato in auge con la presidenza Trump negli Usa. Non parlo della incomparabilità di quella situazione con la nostra. Faccio però presente che il deficitario bilancio americano è anch’esso oggetto di preoccupazioni e di proposte di revisione in seno al Congresso».
C’è chi dice che in queste elezioni ci giochiamo l’Europa. Però anche i partiti più antieuropei come la Lega e M5S sembrano ormai aver lasciato cadere la proposta di uscire dall’Unione o dall’euro.
«Non basta davvero la gentile concessione che, per adesso, non si farà un referendum per uscire dall’Europa, quando da certe parti il discorso continua ad essere intessuto di rozze provocazioni, come l’incitamento a violare le regole di bilancio europee, oppure di continui passi avanti e passi indietro, di programmi in cui si afferma e poi si nega. Ogni oscillazione sul cammino di una maggiore integrazione europea, ora rilanciata da Macron, va nella direzione opposta all’interesse nazionale. Perché l’unico orizzonte di crescita e progresso dell’Italia è l’Europa. Un programma per l’Europa, indubbiamente rigoroso e circostanziato, risulta quello che caratterizza la lista +Europa presentata da Emma Bonino anche in autonomia rispetto alla coalizione di cui fa parte. In generale, è bene che all’interno dei maggiori raggruppamenti si esprima una offerta elettorale differenziata, tale da evitare il rischio più grave cioè, come ha detto il Presidente Mattarella, che gli elettori se ne stiano a casa e per qualsiasi motivo non vadano a votare».
Perché dobbiamo rispettare i vincoli europei di bilancio? Molti partiti sostengono che sono un freno alle potenzialità di crescita e al benessere dell’Italia.
«Le regole di sostenibilità dell’eurozona sono dentro i Trattati. Quello di Maastricht ha fissato parametri che è francamente impensabile violare. Ricordo poi che fu il Parlamento italiano nel 2012 a modificare l’articolo 81 della Costituzione sancendo l’obbiettivo dell’equilibrio di bilancio. Nello stesso tempo concordammo con le autorità europee un programma di graduale risanamento sulla base del Fiscal Compact. Non possiamo dimenticarlo. È questo il momento per portare avanti rigorosamente quel programma sfruttando la ripresa in corso, come ha sottolineato Draghi. Oggi nessun programma elettorale può in Italia qualificarsi in senso europeistico se non contiene risposte chiare su come garantire la netta tendenziale diminuzione del rapporto debito-Pil e su come qualificare la nostra spesa pubblica selezionandone le priorità. E invece, tra tante promesse di spesa, vedo che nessuno parla più di spending review».
Lei ha di recente scritto una prefazione agli scritti politici di Thomas Mann tra le due guerre. Pensa che anche oggi la democrazia in Europa corra un rischio Weimar?
«Non faccio assolutamente paragoni simili. Dico solo che le lezioni durissime di quel periodo dovrebbero insegnare qualcosa ai protagonisti della lotta politica dei nostri giorni. Ci sono oggi in Europa, in Paesi come Ungheria e Polonia, i segni di una grave regressione illiberale. E mentre in Europa risorgono i nazionalismi, l’amministrazione Trump rilancia il protezionismo. Nazionalismo e protezionismo sono nemici mortali della democrazia liberale e riformista. Mi ha confortato sentire la signora Merkel, di recente a Davos, mettere in guardia l’Occidente da questi pericoli». Dialogando con Massimo Cacciari lei ha di recente concordato con lui sull’«immeschinimento della politica».
Che si può fare, oltre a denunciarlo?
«Io penso che bisogna impegnarsi per formare nuove classi dirigenti, se si vuole tornare a una stagione alta della politica che rinnovi il rapporto tra istituzioni e cittadini, specialmente in Italia. È una missione alla quale vorrei dedicare le mie residue energie sapendo che si tratta di un’opera di lunga lena. Il luogo idoneo per quest’opera potrebbe essere una Fondazione, come quelle esistenti in Germania, volte a trasmettere l’esperienza storica di importanti personalità — leader politici, capi di Stato o di governo — e ad affrontare in chiave di ricerca, formazione ed elaborazione nuova i problemi di oggi e del prossimo futuro. Sono interessato e attivamente rivolto a far nascere qualcosa di simile in Italia».